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27 Giugno 2023

Cibo, scent marketing, la strategia dei profumi per stuzzicare l’appetito dei clienti

Preferiamo profumi di cibi veri, magari un po’ pesanti per i nostri abiti, o quelli artificiali creati in laboratorio per stuzzicare l’acquolina in bocca?

 

A chi non è capitato di sentire il profumo del fritto misto del golfo, passeggiando in via Sardegna o tra i vicoli della Marina, a Cagliari, o quello intenso di una bistecca grigliata o del maialetto arrosto, e desiderare  ardentemente di affondare la forchetta in un bel piatto caldo di maccioneddu, gamberetti e calamari dorati? È capitato almeno una volta a chiunque, diciamolo, anche con fastidio annesso per il relativo olezzo e con la certezza che, una volta a casa, dovrai infilarti in lavatrice insieme ai vestiti. Ma non fa nulla quando è la gola che comanda!

 

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Ma anche la piacevole sorpresa di entrare in un ristorante e sentire degli odori invitanti, capaci di scatenare l’acquolina, aumentare la salivazione, farti venire voglia di assaggiare qualunque cibo stia sprigionando quel profumino invitante. E’ sufficiente che il cuoco cucini senza bruciare i cibi ed ecco che, come per magia, che si spandono piuttosto che olezzi effluvi benefici nel catturare gli avventori, da essere oggetto di strategie di vendita elaborate da consulenti e aziende specializzate.

 

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È il cosiddetto scent marketing, il marketing olfattivo, che studia le profumazioni adatte a ogni genere di spazio di vendita e, più nel dettaglio, ai singoli ambienti che quello spazio compongono e ai diversi momenti dell’esperienza del cliente. Così, parlando di ristoranti, la disciplina ragiona sulla sala ma anche sulle toilette. Stabilisce quali aromi far “filtrare” dalla cucina e quali mascherare e come accompagnare l’ospite, dall’ingresso alla fine del pasto, seducendo il naso oltre – o prima ancora – che il palato.

 

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Grant Achatz, chef molecolare pluripremiato di Chicago (Alinea e Next le sue insegne più famose), deve la sua notorietà anche a espedienti come i “cuscini” gonfi di aria di noce moscata, usati nel servizio delle entrée e forati al tavolo per rilasciare il profumo dolce e speziato dell’esotico seme. «L’aroma è onnipresente in tutti i nostri ristoranti tanto da essere considerato un ingrediente di prima classe. Raramente costruiamo un piatto senza considerarne il ruolo», ha affermato Allen Hemberger, responsabile comunicazione per The Alinea Group.

 

Negli States i produttori di profumatori per ambienti hanno rivolto da tempo la loro attenzione al mondo della ristorazione. Secondo una ricerca realizzata da una di queste aziende, la ScentAir di Charlotte (North Carolina), azzeccare la giusta fragranza, oltre a funzionare da “butta dentro”, aumenta il gradimento del cibo. «Se da lontano è lo stimolo visivo che richiama l’attenzione delle persone, da vicino è quello olfattivo che contribuisce a far decidere un cliente esitante», ha scritto Giovanni Ballarini, docente universitario e membro storico dell’Accademia Italiana della Cucina, in un articolo sul sito dell’Accademia dei Georgofili. «L’olfatto è un senso primitivo – ha proseguito Ballarini – I recettori di odori inviano segnali al sistema limbico del cervello dove si generano sensazioni di piacere, suscitando ricordi più persistenti di quelli visivi. Dopo sei mesi solo un quarto della gente ricorda un’immagine, mentre i quattro quinti ricordano un aroma».

 

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Sta ai cuochi ragionare su quali e quanti odori portare sul bancone per farli arrivare ai commensali: «Con la preparazione e la finitura direttamente sul tavolo, alcuni aromi iniziano a ingolosire già prima che il piatto sia finito», racconta Mario Capitaneo, grande esperto di profumeria, in particolare di essenze “animalier”, intense e persistenti. Naturalmente non indossate in orario di lavoro: «Il profumo forte, quale che sia, può danneggiare il piatto», dice.

 

Da Autem, nuova insegna milanese, il patron Luca Natalini fa cadere una goccia di crema alle erbe aromatiche sul dorso delle mani dei commensali. Un modo per predisporre all’assaggio dei suoi menu carte blanche «dove sono gli ingredienti a dettare le regole». Perfettamente coerente il suo signature dish: uno spaghetto in bianco fin pallido alla vista, ma che colpisce per l’aroma deciso del brodo di alloro bruciato e quello dolce del vermouth alle prugne e del burro di Normandia, che aleggia lieve già sul marciapiede, prima ancora di varcare la soglia del ristorante.

 

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C’è solo da domandarsi se siamo d’accordo nel sottoporci a questa sorta di inganno olfattivo. Per i gestori, sarebbe sempre meglio fare di tutto per evitare al cliente sensazioni sgradevoli, offrendo il loro opposto. Ma è meglio un odore reale, che magari ti si attacca agli abiti ma è sintomo di cucina verace, o una fragranza sintetica che simuli un’anima, in contesti che un’anima non ce l’hanno? Noi preferiamo il scent marketing delle feste paesane, l’olezzo del fritto misto del Golfo di Cagliari e il profumo della brace delle paradas nelle feste paesane. E voi?.

Redazione sintony.it