Dopo oltre mezzo secolo di indagini, dubbi, depistaggi e processi, la storia del Mostro di Firenze si arricchisce di una clamorosa svolta: Natalino Mele, il bambino di sei anni e mezzo che nella notte del 21 agosto 1968 sopravvisse al duplice omicidio della madre Barbara Locci e dell’amante Antonio Lo Bianco, non era figlio di Stefano Mele, il marito della vittima condannato per quel delitto. Lo ha stabilito un accertamento genetico voluto dalla procura, che ha attribuito la paternità biologica a Giovanni Vinci, fratello maggiore di Francesco e Salvatore, figure centrali nella cosiddetta “pista sarda” che ha a lungo dominato le indagini sui delitti del Mostro.
La rivelazione, resa nota oggi da La Nazione in un’inchiesta firmata da Stefano Brogioni, apre nuovi scenari su uno dei casi più inquietanti e irrisolti della cronaca nera italiana.
La prova genetica è stata eseguita dal biologo forense Ugo Ricci, esperto di cold case, noto anche per il suo contributo nel caso Garlasco. Per la comparazione è stato utilizzato, tra gli altri, il profilo genetico estratto dalla recente riesumazione del cadavere di Francesco Vinci, fratello di Giovanni, ormai defunto da anni. Ricci ha confermato la compatibilità biologica tra Natalino e Giovanni Vinci, escludendo dunque la paternità legale di Stefano Mele, che scontò tredici anni di carcere per quel delitto.
Una notizia che ha colto di sorpresa lo stesso Natalino, oggi uomo segnato da una vita in ombra:
“Quest’uomo non l’ho mai neanche conosciuto”, ha dichiarato, visibilmente spaesato, dopo aver ricevuto la notifica dalla procura.
L’omicidio di Locci e Lo Bianco, consumatosi a Signa, fu il primo di una serie di otto duplici delitti avvenuti tra il 1968 e il 1985, tutti accomunati dall’uso di una pistola calibro .22 e da una ritualità sempre più inquietante. Quella notte Natalino fu l’unico testimone superstite, ma non ha mai saputo spiegare come riuscì a percorrere da solo due chilometri al buio su una strada sterrata, fino a bussare alla porta di un’abitazione lontana. Il dettaglio resta tuttora inspiegato.
Il nuovo dato genetico porta a rivedere anche il movente di quel primo delitto: non un gesto d’onore di un marito tradito, come stabilì la sentenza su Mele, ma forse un omicidio maturato in un contesto più complesso, in cui i Vinci avrebbero avuto un ruolo ben più rilevante di quanto finora ammesso.
Il nome di Giovanni Vinci non era mai comparso direttamente nelle indagini, a differenza dei fratelli Francesco e Salvatore, finiti più volte nel mirino degli inquirenti negli anni Ottanta. Proprio nel 2018, durante l’inchiesta poi archiviata che coinvolgeva Giampiero Vigilanti, ex legionario di Prato, i carabinieri del ROS avevano raccolto profili genetici utili a una ricostruzione retrospettiva dei rapporti tra i Vinci e i delitti del Mostro, aprendo una pista mai davvero esplorata a fondo.
Tra i reperti analizzati anche uno straccio con tracce di sangue e polvere da sparo, riconducibile a Salvatore Vinci e trovato nella sua abitazione dopo il delitto di Vicchio (1984). Una connessione inquietante, che torna oggi di attualità.
La pistola che ha sparato nella notte del 1968 – e poi ancora dal 1974 al 1985 – non è mai stata trovata. Eppure, secondo la sentenza sul caso Pacciani, “passò di mano”, in un tentativo forse di salvare le verità giudiziarie già scritte, pur riconoscendo una pluralità di soggetti coinvolti. In quella stessa cornice furono collocati i “compagni di merende”, Mario Vanni e Giancarlo Lotti, ormai tutti deceduti.
Oggi, il nipote di Mario Vanni, Paolo, ha chiesto la revisione della condanna, un’istanza che giace ancora senza risposta nei cassetti dei giudici di Genova.
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