Emanuele Ragnedda è stato dimesso dal reparto di Psichiatria dell’ospedale di Sassari, dove era ricoverato dopo un tentato suicidio. L’imprenditore, reo confesso dell’omicidio di Cinzia Pinna, è stato trasferito nel carcere di Bancali, dove rimarrà sotto stretta sorveglianza. Già prima del gesto autolesionistico era seguito costantemente, ma le misure di tutela – soprattutto per prevenire nuovi atti contro sé stesso – sono state ulteriormente rafforzate.
Sul fronte investigativo, le indagini proseguono su più fronti. Gli esperti del Ris stanno eseguendo un nuovo sopralluogo sullo yacht “Nikitao”, di proprietà della famiglia Ragnedda, ormeggiato nel porticciolo turistico di Cannigione e attualmente sotto sequestro. L’obiettivo è individuare eventuali tracce del passaggio di persone che potrebbero aver aiutato l’imprenditore a liberarsi degli oggetti personali della vittima o che, secondo una delle ipotesi al vaglio, avrebbero potuto partecipare al tentativo – poi non realizzato – di gettare il corpo di Cinzia Pinna in mare.
Parallelamente, i carabinieri del Ris hanno lavorato anche nella tenuta di Conca Entosa, tra Palau e Arzachena, dove è stato ritrovato il corpo della donna. Le ricerche, condotte con l’ausilio di luminol e metal detector, si sono protratte per ore, in condizioni di massima riservatezza. Gli esperti hanno individuato diverse tracce ematiche e recuperato tre bossoli, esattamente nel punto e nel numero indicati da Ragnedda durante gli interrogatori. Un dettaglio che conferma la parziale attendibilità delle sue dichiarazioni.
In parallelo alla cronaca dell’indagine, arriva un piccolo segnale di normalità da quella stessa tenuta. Il Tribunale di Tempio Pausania ha accolto l’istanza presentata dall’avvocata Ezia Orecchioni, in rappresentanza di Nicolina Giagheddu, madre dell’imprenditore. La donna aveva chiesto di poter far accedere ai terreni sotto sequestro uno specialista apistico, per occuparsi delle circa 300mila api che popolano l’area e che, da settimane, non ricevevano cure a causa del nastro bianco e rosso degli inquirenti.
«Abbiamo ottenuto il permesso per l’apicoltore, grazie a tutti per l’aiuto», ha dichiarato con sollievo la signora Giagheddu. La madre di Ragnedda, che in più occasioni ha preso pubblicamente le distanze dal figlio, non ha nascosto la propria condanna per quanto accaduto: «Merita l’inferno», aveva detto nei giorni scorsi, davanti ai cancelli della proprietà di famiglia.
Quella stessa terra, però, resta per lei “un pezzo di cuore”, oggi segnata dal dolore, ma anche da un tentativo di rinascita che passa – almeno per ora – attraverso il ronzio di migliaia di api che tornano a essere accudite.
Nel frattempo, la giustizia continua a fare il suo corso. E mentre gli inquirenti cercano di chiarire ogni dettaglio di un delitto che ha sconvolto la Gallura, il nome di Emanuele Ragnedda resta al centro di una vicenda che mescola orrore, segreti e tragedia familiare.
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