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15 Febbraio 2016

I fast food non vogliono più chiamarsi fast food

Nel tempo è diventata una parola "brutta". E le grandi catene si rifanno il trucco a partire dal modo in cui si definiscono (ma non solo).

Nel tempo è diventata una parola "brutta". E le grandi catene si rifanno il trucco a partire dal modo in cui si definiscono (ma non solo). La notizia è di qualche giorno fa, anche se in Italia è stata ripresa solo di recente: McDonald's, il gigante americano del fast food, ha aperto a Hong Kong un concept store diverso da ciò che siamo abituati a vedere dietro la grande M gialla nelle maggiori città del mondo. The Independent, presitigiosa testata giornalistica inglese, ne ha parlato il 2 gennaio scorso: McDonald's Next ha luci soffuse, postazioni per ricaricare telefoni, tablet e pc ai tavoli, e menu altamente personalizzabili che dedicano ampio spazio a ingredienti ritenuti salutari, dalla quinoa agli asparagi. Insomma, una specie di misto tra Starbucks e Panera Bread, la catena statunitense che dichiara di offrire ingredienti “puliti”, un menu “trasparente”, cibi con un'impatto ecologico positivo. Cosa sta succedendo al colosso dell'hamburger? Il nome del locale può venirci in aiuto: usando la parola Next si suggerisce un'evoluzione del modello della ristorazione economica e veloce così come siamo abituati a conoscerla. Un nuovo capitolo, un'idea diversa, adattata alle esigenze di una clientela che sta cambiando gusti e preferenze. Da un lato ci sono i fast food tradizionali, la cui proposta gastronomica viene sempre più spesso – e ormai da molti anni – messa in discussione; dall'altro ci sono tante piccole-medie-grandi catene che si affacciano sul mercato del cibo più o meno veloce investendo su concetti popolari come artigianalità, qualità dei prodotti, territorialità, salubrità: Chipotle e Shake Shack negli Stati Uniti, Autogrill ("un'anima glocal") e Eataly in Italia, per fare solo qualche esempio seppur di storie molto diverse tra loro. In realtà è un fenomeno che si trascina già da un po' di tempo: laddove il mito del Big Mac e dei suoi fratelli è stato messo in crisi dall'essere percepito come cibo industriale e, soprattutto, globale, le grandi catene hanno cercato a più riprese di dargli una veste più locale e genuina. Ne sono un esempio i panini regionali di McDonald's, di cui abbiamo sentito parlare o che magari hai pure addentato nei mesi scorsi. Potremmo considerarlo, senza timore di calcare troppo la mano, una sorta di greenwashing applicato al mondo della ristorazione. Così come, secondo le organizzazioni ecologiste, le grandi multinazionali responsabili dell'inquinamento del pianeta si sono fatte promotrici di iniziative di salvaguardia della natura per rifarsi il trucco di fronte all'opinione pubblica (questa l'accusa), oggi i fast food hanno bisogno di smarcarsi dall'immagine di cibo spazzatura a cui spesso istintivamente vengono associati, comunicando se stessi sotto una nuova veste. Come ha sottolineato Candice Choi in un bell'articolo per Associated Press, i fast food stanno cercando di prendere le distanze dal termine fast food, che ha assunto nel tempo una connotazione negativa. McDonald's vorrebbe trasformarsi in una “burger company moderna e progressista”; Greg Creed, CEO di Yum (Taco Bell, KFC e Pizza Hut) ha dichiarato che c'è la necessità di ridefinire il significato di fast food, che è percepito come qualcosa di industriale e impersonale; Chipotle Mexican Grill e Panera Bread nell'ambiente delle catene ristorative vengono definite fast casual, mentre Shake Shack ha fatto un passo più in là e si auto-definisce fine casual. A tale proposito Nick Rose su Munchies ha scritto: «in mezzo a tutta questa incertezza, mentre le regole del mondo fast food vengono riscritte, una cosa è certa: l'era in cui i ristoranti ostentavano con orgoglio l'essere economici e veloci è finita». Rimane da vedere caso per caso quanto c'è di comunicazione e quanto di sostanza, ed è tutta qui la differenza tra un'accusa legittima di greenwashing del cibo (o foodwashing?) e un reale cambiamento di forma del fast food di turno. Quel che è certo è che il modello classico del fast food rappresentato da McDonald's e Burger King è in crisi, economica e d'immagine: è anche una questione di fiducia del pubblico, e di cedimento di fronte al fuoco incrociato delle tematiche slow da un lato, e della moda dello street food artigianale dall'altro. Ma siccome stiamo parlando di colossi che fatturano miliardi di dollari ogni anno, la resa è ovviamente fuori discussione.