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28 Giugno 2018

Totò i cani sono indifesi danno tutto all uomo

“220 cani?!? E perché? Che se ne fa di 220 cani?!” – – “Me ne faccio, signorina mia, che un cane val più di un cristiano.

 

– “Signorina mia (…) io non posso vivere senza far nulla: se vogliono farmi morire, mi tolgano quel divertimento che si chiama lavoro e son morto. Poi sa: la vita costa, io mantengo 25 persone, 220 cani… I cani costano…”.

– “220 cani?!? E perché? Che se ne fa di 220 cani?!” –

– “Me ne faccio, signorina mia, che un cane val più di un cristiano. Lei lo picchia e lui le è affezionato l’istesso, non gli dà da mangiare e lui le vuole bene l’istesso, lo abbandona e lui le è fedele l’istesso. Il cane è nu signore, tutto il contrario dell’uomo. (…) Io mangio più volentieri con un cane che con un uomo.”

Totò aveva sempre avuto l’abitudine di andare a far visita ai cani ospitati in canili, li visitava a turno, sostenendoli economicamente. Si faceva accompagnare sempre da qualcuno, perché Totò era quasi completamente cieco a causa di un distaccamento della retina. Nel 1965 decise di far costruire lui stesso un canile moderno e attrezzatissimo vicino Roma, che chiamò “L’ospizio dei Trovatelli” (non amava la parola “randagio”), dove venivano ospitati cani malati o feriti che andava regolarmente a visitare monitorandone i progressi.
Spese allora ben 45 milioni di lire per la sua realizzazione.

Lietta Tornabuoni, critico cinematografico, una volta lo accompagnò dai suoi amici a quattrozampe. In un articolo apparso su La Stampa ci regala un ricordo personale del rapporto che univa Totò ai suoi trovatelli, un amore reciproco:

“Sceso dalla macchina venne accompagnato dall’autista alla rete metallica che circondava il terreno di giochi dei cani e aiutato a entrare. Una festa: gli si precipitarono addosso tutti insieme abbaiando, mugolando, scodinzolando, puntandogli le zampe sul cappotto. Lo riconoscevano, mentre Totò aveva la vista troppo danneggiata per riuscire a individuarli. Né avrebbe potuto distinguerli dal nome. Ai cani quasi mai attribuiva un nome (“Mica sono figli”). Li chiamava tutti “cane” e basta”.

Eppure in questa definizione, “cane e basta”, era racchiuso tutto il suo grande amore per ciascuno di loro, indistintamente.
Con i cani Totò amava giocare, divertirsi, stare semplicemente in loro compagnia e, sicuramente, anche “chiacchierare”. In realtà poi ai cani di sua proprietà Totò attribuì titoli nobiliari: “Dick, il mio cane lupo, era invece barone. Peppe, il mio cane attuale, è visconte. Visconte di Lavandù. Gennaro, il mio pappagallo, è cavaliere. Li ho investiti io”.

Totò ebbe infatti anche cani “suoi” (ammesso che non considerasse propri tutti i “trovatelli” che faceva personalmente curare, ospitare ed accudire). Uno dei più noti è Dick, un pastore alsaziano, un cane poliziotto in pensione, che fu affidato proprio all’attore. Dick appare anche in uno dei suoi film, “Totò a Parigi”, ed è proprio a lui che Totò dedicò una delle sue poesie.

Dick

Tengo ‘nu cane ch’è fenomenale,
se chiama “Dick”, ‘o voglio bene assaie.
Si perdere l’avesse? Nun sia maie!
Per me sarebbe un lutto nazionale.
Ll ‘aggio crisciuto comm’a ‘nu guaglione,
cu zucchero, biscotte e papparelle;
ll’aggio tirato su cu ‘e mmullechelle
e ll’aggio dato buona educazione.

Gnorsì, mo è gruosso.è quase giuvinotto.
Capisce tutto… Ile manca ‘a parola.
è cane ‘e razza, tene bbona scola,
è lupo alsaziano,è polizziotto.

Chello ca mo ve conto è molto bello.
In casa ha stabilito ‘a gerarchia.
Vo’ bene ‘ a mamma ch’è ‘a signora mia,
e a figliemo isso ‘o tratta da fratello.

‘E me se penza ca lle songo ‘o pate:
si ‘o guardo dinto a ll’uocchiemme capisce,
appizza ‘e rrecchie, corre, m’ubbidisce,
e pe’ fa’ ‘e pressa torna senza fiato.

Ogn’anno, ‘int’a ll’estate, va in amore,
s’appecundrisce e mette ‘o musso sotto.
St’anno s’è ‘nnammurato ‘e na basotta
ca nun ne vo’ sapè: nun è in calore.

Povero Dick, soffre ‘e che manera!
Porta pur’isso mpietto stu dulore:
è cane, si… ma tene pure ‘o core
e ‘o sango dinto ‘e vvene… vo ‘a mugliera…